È passato ormai un mese dai primi casi di Covid-19 accertati in Italia: era il 21 febbraio quando venivano registrate le prime infezioni a Codogno, in provincia di Lodi. La distanza temporale appare ormai sufficiente per fare alcune considerazioni sulla reazione del Paese a questa difficile situazione. Ho osservato l’evoluzione in pandemia della Covid-19 con la preoccupazione e l’attenzione di molti e l’ho fatto da una prospettiva a me molto cara – essendo quella di estrazione universitaria – il Risk Management. Una definizione semplice, il più ampia possibile e soprattutto personale di rischio potrebbe essere questa:
Il rischio è la probabilità che un evento si verifichi in maniera significativamente diversa da come ce lo aspettavamo
Come avviene nella vita di tutti i giorni, possiamo considerare il termine rischio per la sua sola accezione negativa ovvero quando quel significativamente diversa riguarda un evento dannoso. In effetti se una cosa va significativamente meglio delle attese non lo percepiamo come un rischio corso e quindi, in questo caso, non rientra nella nostra definizione.
Il processo di risk management, che è un processo continuo, prevede, in qualunque realtà lo si voglia applicare, alcune azioni essenziali, da seguire sempre in funzione del contesto di analisi in cui ci troviamo e che occorre studiare:
- Identificare i rischi
- Misurare i rischi e valutarne l’andamento
- Prevedere azioni per sterilizzare, contenere, mitigare i rischi
- Porre in essere le azioni previste
- Monitorare le azioni compiute
Cos’abbiamo osservato fino a qui?
Il primo punto da cui partire per analizzare il fenomeno di propagazione della Covid-19 in Italia è capire se abbiamo identificato correttamente questo rischio. Avendo osservato il fenomeno in Cina almeno da dicembre il rischio era stato sicuramente identificato in senso assoluto – ovvero: la probabilità che avremmo avuto casi di crisi respiratoria acuta anche in Italia era quasi certa – ma senza contestualizzarlo rispetto alla situazione nazionale. In parole semplici non sembra sia stato colto il rischio osservato in Cina rispetto ad uno scenario, quello nazionale, diverso e composto da fattori specifici come ad esempio la presenza di una delle più grandi conurbazioni d’Europa, una morfologia del territorio particolare (paesi contigui lungo direttrici stradali), un sistema sanitario nazionale efficiente, pur con forti diversità regionali, ma con una dotazione di posti di terapia intensiva di un certo tipo e così via. Una sensazione ulteriore è che il caso dei turisti cinesi ricoverati a Roma all’ospedale Spallanzani – i primi casi accertati in Italia – non abbia accelerato la comprensione o indotto a predisporre delle misure preventive.
L’errata identificazione di un rischio conduce inevitabilmente ad una gestione non corretta dello stesso che si ripercuote sia sull’individuazione e utilizzo di misure sbagliate sia, soprattutto, sulla definizione di azioni da porre in essere una volta superate determinate soglie di queste misure: queste, essendo disegnate su scenari incoerenti possono risultare poco efficaci. L’assenza di un piano coordinato e preciso – opera sicuramente non semplice da realizzare – è risultata evidente con il susseguirsi delle diverse misure comunicate: è stata creata prima una piccola zona rossa, poi un insieme, poi le zone gialle, poi si sono chiuse le rosse, poi tutta Italia è diventata rossa ma con ampie deroghe per spostarsi, poi si sono ridotte le deroghe, infine non ci può spostare dal proprio comune: il tutto in maniera scollegata dal progredire dell’epidemia (nel frattempo dichiarata pandemia dall’OMS).
Al netto però della gestione della comunicazione delle misure – aspetto comunque fondamentale nella gestione delle emergenze che riguardano l’intera popolazione – quello che colpisce è proprio questa apparente assenza di un piano di azioni di risposta chiaro e di una proporzionalità di questa risposta (per capirci un action plan coerente), vale a dire cosa faccio se i contagi arrivano a mille, cosa a cinquemila, cosa a diecimila e così via (anche seguendo altri criteri). Apparentemente sembra essere mancato anche un metodo uniforme di misurazione del progredire del rischio, nello specifico sullo strumento di rilievo dei contagi che molto ci dicono sul futuro della diffusione del contagio: il ricorso ai tamponi è apparso eterogeneo da regione a regione senza una linea guida complessiva chiara.
Le azioni adottate – seguendo anche esempi già noti – come il social distancing, la limitazione della libertà di movimento, la moral suasion sull’isolamento degli anziani, la chiusura delle attività non primarie e gli altri provvedimenti, seppur presi ad ondate (e talvolta in preda ad un’apparente ansia da decreto), sembrano invece una giusta risposta, data magari seguendo un percorso logico improvvisato, ma pur sempre corretta e forse, se paragonata a quella di altri paesi, quasi tempestiva.
In ultimo, il monitoraggio delle misure adottate appare claudicante soprattutto nel metodo: senza obiettivi o risultati attesi dichiarati ex-ante rischia di trasformarsi in uno strumento di reporting (ottimo per le conferenze stampa) più che uno strumento per valutare le azioni adottate.
Cosa ci insegna quest’esperienza?
Da un punto di vista tecnico di risk management la gestione della Covid-19 testimonia la totale assenza, in Italia, di qualsiasi procedura di gestione dei rischi, sia ex-ante che ex-post: è qualcosa che nel paese delle emergenze permanenti va ricondotto principalmente all’assenza di una cultura del rischio. La sorpresa, se vogliamo, è che Paesi culturalmente più vicini a questa cultura del rischio sono stati colti ugualmente impreparati e anzi, probabilmente, hanno fatto peggio: pensiamo al Regno Unito – un paese culturalmente ben disposto ad avere rilevatori di fumo e/o estintori in ambito domestico per gestire il rischio incendi – dove l’identificazione del rischio Covid-19 ha richiesto praticamente settimane e, a tutt’oggi, non riesce a tenere un lockdown totale.
Ci sono poi aspetti positivi che vanno considerati sulla gestione italiana. Oltre all’incredibile corsa alla solidarietà, sia individuale sia del mondo associativo, di quello industriale, finanziario e culturale volta sempre a potenziare le azioni di risposta (pensiamo ai nuovi reparti di terapia intensiva), l’Italia ha tenuto e sta tenendo una gestione trasparente delle numeriche relativamente all’evoluzione delle serie di dati: non è stato sempre così per la Cina ad esempio e i nostri numeri – tremendi – hanno forse avuto la capacità di allertare nazioni fino ad un certo periodo sorde rispetto al problema e quindi incapaci di avvertire il rischio. La trasparenza è infatti un aspetto essenziale per qualunque tipo di misurazione di terze parti che può costituire un importante strumento, ulteriore, di monitoraggio.
Come guardare al futuro?
Questa pandemia avrà molte conseguenze, tante purtroppo saranno inestimabili, molte comprensibili solo fra anni. Eppure Covid-19 sembra accodarsi ad una serie di altri eventi catastrofici di diversa natura che hanno caratterizzato il nostro tempo: attacchi terroristici, crisi finanziarie, crisi climatiche, catastrofi naturali. Questo tipo di eventi, per diversi fattori, è sembrato presentarsi con maggior frequenza negli ultimi decenni e mi porta a due considerazioni:
- Gli eventi estremamente dannosi e un tempo rari si stanno facendo purtroppo piuttosto frequenti, quindi non c’è alternativa al considerarli e studiarli
- Il costo di gestione di eventi (rischi) sconosciuti o male identificati è infinitamente superiore al costo per identificarli e gestirli
La periodicità di questi eventi dovrebbe suggerire un ripensamento del modo con cui leggiamo i relativi rischi e, di conseguenza, a irrobustire i nostri modelli di risk management per ridurre il ricorso a quelli di emergency o crisis management cui, come Paese, facciamo purtroppo spesso ricorso.
La modalità di gestione adottata in Italia per la Covid-19 dimostra che gestire i rischi non è qualcosa che si può improvvisare, che il tempo di risposta è un fattore chiave e che occorre valutare il più ampio numero di scenari per definire chiaramente le azioni da porre in essere, sempre nell’ambito di un’analisi attenta dei mutamenti del contesto d’azione. In sostanza richiedono che anche le Istituzioni si dovrebbero dotare, così come fanno le istituzioni finanziarie, di strutture di risk management permanenti e non di task force estemporanee per risolvere le emergenze.
Il rischio, altrimenti, è di seguire il problema anziché, come sarebbe più opportuno, di anticiparlo.