Manhunt: Unabomber
fabio
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Non so dire se ho inserito spoiler o meno: la vicenda narrata è nota e disponibile su Wikipedia da sempre, quindi per me non possono esserci spoiler ma solo opinioni su elementi della narrazione. Per il resto, non sono tipo da fare la solita pacchianata di dare un voto, ma nel caso sarebbe sicuramente alto: guardatelo!

Manhunt: Unabomber è un telefilm distribuito da Netflix incentrato sulla storia – vera – di uno dei casi investigativi più famosi e complicati della storia americana. Da spettatore italiano il termine Unabomber richiama in maniera più diretta le vicende dell’attentatore dell’area di Veneto e Friuli: in realtà di tratti comuni fra i due casi non ce ne sono…il serenissimo emule, se di emule si può parlare, non ha ucciso nessuno (per fortuna!), non ha un movente noto e, cosa più importante, non è mai stato individuato.

Il telefilm racconta in otto puntate la vicende fin dai primi attentati, seguendo da un lato le vicende degli investigatori e dall’altro le vicende, quasi sempre passate, dell’attentatore con diversi flashback. Il tipo di narrazione complessiva porta a creare la solita empatia – su cui questo genere di telefilm si basa – con i protagonisti: sia l’investigatore, Jim Fitzgerald, che il ricercato dimenticandoci di altri soggetti, qui molto più che marginali, come le vittime. In sostanza entrare nei panni del protagonista investigatore induce a sposarne l’ossessione per il ricercato, capirne il profilo, le motivazioni e in generale il mindset arrivando, eventualmente, a prenderne le parti.

In più di un momento ci si sente dalla parte di Ted Kaczynski, vero nome di Unabomber e interpretato da Paul Bettany, soprattutto quando entra in gioco il protagonista immateriale, il Manifesto, che diventa su più livelli punto di contatto fra i protagonisti: seppur in un contesto di follia contiene delle verità che verranno accettate nel tempo anche da Fitzgerald e contemporaneamente gli permette di profilare il primo ricercato d’America partendo prima da ciò che il documento dice e poi da tutti i temi che non tratta.

Sembra assurdo, ma sarà il primo caso nella storia in cui il modo di scrivere di una persona viene riconosciuto valido quanto un’impronta digitale. Ancora più interessante è la narrazione del processo, epilogo della vicenda, in cui spicca il richiamo alla brutalità dei fatti – tramite le “arringhe” dei parenti delle vittime – e al sistema che distrugge, tradendolo, Kaczynski così come predetto nel suo Manifesto.