Eroe di inizio Secolo
fabio
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Fiumi di inchiostro: fiumi d’inchiostro andranno versati ancora e ancora per descrivere l’Azione e il Campione. Sul tracciato di una delle più antiche rassegne ciclistiche d’Italia nonché delle più affascinanti del ciclismo internazionale, Vincenzo Nibali, messinese classe 1984, detto Lo Squalo, ha aperto la stagione delle Classiche Monumento esattamente come l’aveva lasciata al Lombardia: vincendo.

“A fari spenti” – Si era presentato così alla partenza, dopo una buona Tirreno-Adriatico e lasciando intendere quello che già era stato detto: gli obiettivi stagionali sono Tour e Mondiale. E invece a 7km dalla fine i fari li ha accesi, si è preso la testa della corsa con un’azione sulla storica salita del Poggio che ha lasciato sul sellino il resto del gruppo fra facce incredule e sguardi di chi non è pronto a rispondere su una salita che di lì a poco sarebbe terminata introducendo la discesa e quindi il nuovo rientro sull’Aurelia, vera e propria rampa di lancio per gli Uomini Missile.

Di lì a poco – Ci si potrebbero scrivere trattati su come il concetto di spazio-tempo sia così avvezzo alla deformazione, quando si è sui pedali o a piedi, e un umano tuo simile ti passa accanto con la naturalezza e lo slancio dello Squalo. Le gambe non accelerano, non perché non ne abbiano – basta guardare la volata per il secondo posto per capirlo – ma perché la testa non riesce a portare in uno spazio di razionalità quell’Azione e non riesce perché azioni del genere non si vedono da tanto tempo.

Anche di atleti come Nibali non se ne vedono da tanto: schivo e solare al contempo, illeggibile in gara, atleticamente perfetto, corretto sempre. Letteralmente: sportivo. Capace di vincere, capace di perdere, ma soprattutto – ieri si è visto – capace di emozionare anche chi non segue ogni singola tappa di un Grande Giro. A tal proposito è forse il caso di ricordare che, da quando è considerata disciplina sportiva l’antica prassi di far girare una ruota per mezzo di pedali collegati con una catena, solo sei esseri umani sono riusciti a fregiarsi della Tripla Corona: Anquetil, Gimondi, Merckx, Hinault, Contador e Nibali.

In altre epoche sarebbe stato un evidente segno di classe tipico di un vinci-tutto, ma in quest’epoca di telemetrie, watt erogati, ricerche frenetiche per ridurre l’attrito fra componenti e specializzazioni incredibili e a tratti romantiche – come quella di Peter Sagan in grado di vincere tre Mondiali di fila senza una nazionale a supporto – nessuno era pronto a vedere lo stesso ciclista affiancare alla Tripla Corona anche tre Classiche Monumento (due Giri di Lombardia e una Milano-Sanremo) e, in ogni caso, non con queste modalità, non imponendo il suo gioco.

Nasceranno ancora, sono sicuro, ciclisti che faranno alzare i telespettatori dalla sedia – non poltrona né divano – ad ogni loro azione sia essa in salita, in volata o in fuga, ma mentre i piccoli squali crescono grazie ad una scuola eccezionale (quella italiana) e ad un territorio fantastico (l’Italia stessa) ora è il caso di far scorrere i fiumi d’inchiostro per Vincenzo Nibali, l’eroe d’inizio secolo del ciclismo d’Italia.