The last dance

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fabio
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Ho finito ormai da una settimana di guardare The Last Dance la docu-serie dedicata, di fatto, a Michael Jordan. È stata, per farla breve, un successo di critica e, chiaramente, di spettatori. Non è semplice per un prodotto dedicato ad una persona o un periodo così specifico raggiungere un tale successo, ma se vogliamo è proprio in virtù del soggetto che è accaduto: non uno sportivo ma il modello di sportivo, non un vincente ma l’icona della vittoria, non un personaggio ma la persona più influente del suo periodo. A parte tutte queste cose ovvie e un po’ banali che avrete già letto sicuramente – come me – da altre parti, vorrei provare ad aggiungere i motivi per cui secondo me é proprio un bel prodotto.

La lunghezza e la profondità dei dettagli

The Last Dance parla di un periodo specifico e lo fa in dieci puntate dedicando grosso modo ogni puntata ad un tema specifico, senza perdersi in micro dettagli inutili né rimanendo vaga: aiuta molto il fatto che a parlare siano molti dei protagonisti coinvolti e lo fanno in prima persona.

Lo spettacolo nello spettacolo

Le immagini utilizzate, raccolte durante quegli anni, offrono una visione della realtà nuova completata da racconti e storie mai sentite prima sulla vita di spogliatoio. Facce, scherzi, risate, battute, slang, abitudini…tutte cose che arricchiscono e colorano un disegno che, almeno per me, fino ad oggi si poteva solo intuire.

La personalità del soggetto

Complici i molti flash-back e le reazioni live dell’intervista perpetua – oltre ovviamente alla storia di successi già nota a tutti – diventa più visibile la personalità di Michael Jordan, rendendola sicuramente più comprensibile. Il momento in cui parla della mentalità con cui si allenava e giocava e, soprattutto, con cui pretendeva che gli altri si allenassero e giocassero è forse stato il più alto di questo sguardo sulla sua personalità.

When people see this, they’re going to say ‘Well, he wasn’t really a nice guy, he may have been a tyrant’…Well that’s you, because you never won anything. I wanted to win, but I wanted them to win and be a part of that as well. I don’t have to do this. I’m only doing it because it is who I am. That’s how I played the game. That was my mentality. If you don’t want to play that way, don’t play that way.

Michael Jordan

Personalmente l’ho trovato bellissimo, anche la parte in cui accenna a piangere…mi ci sono anche ritrovato in larga parte rispetto a come lavoro e pretendo che le persone attorno a me lavorino (e questa cosa dovrò approfondirla).

Il fattore nostalgia

The Last Dance parla della più grande squadra dell’NBA di tutti i tempi in uno sport molto competitivo ma di sicuro non incline allo stato di polemica permanente fra squadre – com’è per esempio il calcio europeo – quindi molto maturo e in grado di ammettere chiaramente e unanimemente questa situazione (nelle interviste sono coinvolti spesso avversari dei match descritti, nessuno ha parlato di ingiustizia): la nostalgia per quel tempo quindi non vale solo per i tifosi dei Bulls ma prende tutti. Ci sarebbe poi anche la nostalgia o meglio l’infinita tristezza, oltre alla nostalgia, per la puntata per e con Kobe Bryant, ma questa è un’altra storia ancora. Il pubblico di quella NBA, quella degli anni ‘90, era diventato incredibilmente vasto, erano i primi istanti dopo il big-bang quando era appena diventata fenomeno di massa: è chiaro quindi che il pubblico interessato non è soltanto di addetti ai lavori o fan della persona/squadra – come ad esempio i documentari, sempre su Netflix, su Griezmann o la juve – ma praticamente chiunque…perché sì, di quel periodo molti hanno nostalgia e chi è troppo giovane per averla forse lo osserva ancora più interessato come il periodo della nascita degli dei.

È veramente bello, è veramente fatto bene, è divertente – perchè diciamocelo se c’è Dennis Rodman ci si diverte – e permette di capire da dove può derivare la grandezza di un campione: se non lo avete già fatto, guardatelo.