Sono a Torino, seduto sull’argine dei Murazzi. È un posto molto bello dove sono stato altre volte, affascinante a modo suo nei momenti in cui non è murato di gente la sera. È pacifico: il fiume, largo, è pressoché fermo, i torinesi passeggiano con calma nella domenica pomeriggio, l’antica prassi delle radioline per seguire le partite è sostituita dagli smartphone, qualcuno si tiene in forma correndo o girando in bici…insomma è tutto regolare, come l’ultima volta che ci sono stato.
Sono un po’ scarso a camminare (e anche a correre) perché tra i miei difetti posso annoverare quello di guardare per terra: certo a Torino è difficile farlo, ma ogni tanto l’istinto vince e butto lo sguardo sui lastroni di pietra o sulle radici che hanno vinto la loto lotta con l’asfalto – ho scoperto che sono ottime rampe per ragazzini in monopattino – ed è qui che trovo praticamente appiccicata all’asfalto una mascherina chirurgica verde/azzurra tendente al marrone, segno che era lì prima della pioggia intensa del primo pomeriggio.
È quella mascherina che mi ha portato – ed è la prima volta che lo faccio – a considerare che c’è stata e, sia chiaro, c’è ancora una pandemia…ma per la prima volta da febbraio 2020 si è invertita la situazione, l’onere della prova se vogliamo: un qualcosa mi ha ricordato che c’è la pandemia e non il contrario.
Sembra di essere in un altro mondo rispetto a Milano qui: non ho visto quasi nessuno qui tenere la mascherina al braccio o in faccia, che sia indossata per bene o sotto il mento, e neppure nessun tipo di assembramento: l’emblema di una città – parlo comunque di un pezzetto molto piccolo e particolare – ordinata che ha preso le misure sui comportamenti da adottare e che lo fa bene, che non ha paura e che è già sulla strada per dimenticare – per quanto possibile e per quanto corretto – quello che sta succedendo da un anno e mezzo.
È durato un attimo, ma è stato incredibile.
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